sabato 11 dicembre 2010

LA STANZA DELL’ARTISTA (Visione profetica)



LA STANZA DELL’ARTISTA (Visione profetica) è un disegno a matita su cartoncino del 1979 che ho realizzato in contrapposizione all’ispirato dipinto di Vincent van Gogh “La camera ad Arles”. Non è facile parlare delle proprie opere e ben altre parole devono accompagnare un disegno. Questo post non vuole essere una spocchiosa ed esauriente esegesi ma una semplice e spregiudicata considerazione a posteriori su quello che, inconsciamente ha preso forma sotto lo stimolo del contrasto che una mirabile grafite è riuscita a concedermi.

L’opera mantiene una struttura identica a quella dell’autore olandese, ma se la pittura del maestro presenta una realtà quotidiana in maniera didascalica, qui invece, tutto è surreale, simbolico, astratto, e per questo, forse più veritiero. Dove per van Gogh, il letto addossato a destra vicino alla parete/protettiva è il simbolo sul quale ci si riposa dalle fatiche e dai turbamenti delle passioni e visioni consce delle proprie dure giornate, qui nel mio disegno, il letto manca, ma lo stesso spazio è occupato da un mondo ancora più simbolico e indefinito: sonno puro, il luogo che alimenta le visioni inconsce, quelle che turbano comunque, l’equilibrio mentale di un individuo: sogni, visioni, incubi, fantasie, tentazioni, paure, passioni, sentimenti, ecc.).


Come sempre la realtà che un’artista esprime è molto più complessa e a più livelli. Il lato razionale che prende tempo e spazio a sinistra (emisfero dx del cervello) è vuoto, freddo, bianco, quasi inconsistente ma ben dominato perché poggia sulle quattro gambe della sedia (simbolo del dominio totale del proprio territorio; anche se rappresenta il luogo dove ogni spettatore ideale, prende posto per osservare, analizzare e incasellare, vivere e rivivere, facendo propri, emozioni, passioni e sentimenti anche non personali) e non può far altro che assistere inerte davanti a questo film, queste rappresentazioni che altri stanno realizzando o che egli stesso sta vivendo proiettando (il proprio io) di fronte a sé.


Seduto comodamente domina e vede sotto ai suoi piedi, le visibili tracce evanescenti della natura mortale e impassibile. Intorno a sé tutto è statico, tutto è immobile, anche se ogni cosa sta per volgere al termine, sta per passare dallo stato liquido-infanzia (pozzanghera capovolta = mare delle opportunità e del destino = volo/fenicotteri/gruppo: amici, parenti, vicini, compagni di scuola, colleghi) allo stadio successivo creta-gioventù, ossa/teschio-maturità fino a ridivenire sabbia/vecchiaia-morte. È il ciclo della vita e delle reincarnazioni continue, il simbolo della ruota eterna, dove però qualcosa può sempre essere ribaltata (il destino cambia continuamente = è la pianta con la sua rugiada che riempie la pozzanghera di acqua ce lo conferma) senza lasciare traccia di sé, solo flebili impronte sulla sabbia: Polvere siamo e polvere torneremo.

Il lato irrazionale a destra è invece il luogo del coraggio, della forza, della libido, del dominio, della violenza, dei tabù, del peccato, dell’incoscienza, della cattiveria, della lotta contro il male, dei poteri forti, delle beghe, del divino, delle emozioni, dell’intuizione, dei manufatti dell’uomo, ecc. In questa quinta infinita nulla è statico, tutto è in continuo divenire, e ogni cosa può prendere un’altra piega o un’altra apparenza.

Qui è la sirena che deve essere legata e il suo canto non potrà essere esprimibile (il volto arcigno non ha bocca).
Qui è il serpente che fagocita l’uccello piumato, il famoso Quetzalcoatl simbolo del quinto mondo (quello dell’uomo dell’ultima era, le altre sono implose e sono sparse sul pavimento).
Qui il blocco di pietra al centro della composizione, diviene pilastro/dolmen/obelisco portatore di messaggi antichi come la caverna/grotta (ricca di ombre piene di metafore e parabole come nel mito di Platone, con le tane/rifugio), con i suoi paesaggi nascosti, e si trasforma in un monumento imponente, in una vestigia umana, in un antico rudere (Timeo = Atlantide), testimone del tempo che fu e ridivenire colonna/omphalos del nuovo mondo o del vecchio mondo costruito a misura d’uomo con i blocchi di tufo, con i mattoni (l’argilla informe questa volta è stata plasmata dalle mani di esseri umani).
Qui la silice è divenuta vetro, la selce è una lancia/giavellotto raffinato, il metallo un chiodo, l’erba una corda, il cotone un calzino (sic!), il legno una finestra.
Qui l’uomo cavalca la chimera, domina il mostro che lui stesso crea nei propri pensieri: l’essere mostruoso che esso stesso osanna nei miti, trasformandolo nei mille volti attraverso paure e vendette ancestrali in (padre padrone, dittatore, madre ossessiva) o come Sfinge, Minotauro, Edipo, Prometeo, Angelo, ...
Qui, finalmente, la Sirena viene dominata e tenuta bloccata da altre corde e dalle strette volute della coda/serpente intorno al ramo, Eva primordiale, Alma Mater, Mater Dei.
Qui l’essere femminile primordiale madre/moglie/amante, apparentemente cavalcata e succube di un uomo messo a nudo (e ridicolizzato), è la vera tutrice che divora sotto forma di serpente, come una mantide religiosa i suoi figli/uomini e che, come una maga (Circe), trasforma in bestie, animali.

In quest’opera è in atto una lotta continua tra Utopia e Ideologia, tra Fisica e Metafisica, tra Psiche e Techne, tra Realtà e Sogno, e a differenza della stanza di van Gogh, dove tutto è in ordine e ognuno può andarci a dormire (come avviene in un albergo o locanda), qui il letto non c’è, e per nessuno si apre uno spiraglio di salvezza o di sperato riposo. Al contrario dei mille luoghi incantati descritti da Omero nell’Odissea, qui per l’individuo-Ulisse avventuriero/scopritore che decide di mettersi in viaggio, chiuso nel suo mondo ideale e che si mette in gioco, sognando, pensando, fantasticando, idealizzando, senza nessun mentore, non c’è una casa vera e nessuno ad attenderlo alla fine del viaggio; del fedele Argo ci sono solo le impronte sulla sabbia.

L’essere umano è solo con i suoi ideali, obiettivi, speranze, opportunità e aspirazioni e non può esserci neanche nessuna fede o religione che riuscirà a salvarlo. L’uomo in nero che si staglia contro i gradini della scalinata (gironi infernali della Divina Commedia) con la sua ombra terrena, sembra discendere divinamente da un cielo cristallino come una leggiadra figura ieratica di un santo/salvatore ma è un essere umano, che con i suoi difetti e con le sue perversioni, scende sempre più verso l’infimo gradino più basso. Nulla sa di salvifico, nulla potrà confortare la notte profonda dell’essere umano, solo l’anamorfosi impietosa del teschio mostra la realtà per quello che è: una grande illusione.


© FRANCO CHIRICO - Proprietà artistica riservata - Riproduzione, anche parziale, vietata in tutti i Paesi. Cliccare sulla foto per apprezzarne i particolari.

 

Vincent van Gogh - La camera ad Arles

domenica 5 dicembre 2010

SPLEEN E IL GATTO

Chat noir, mur blanc - Near Park Avenue, under Van Horne, Montreal

La gente è impazzita, è in lutto,
non crede più ai crisantemi
per il gatto nero che morirà domani.
    Ora... un uomo con carrozzina è in cerca del figlio.

Le massaie sono cariche di borse
curve, stanche con i piedi gonfi.
Lo hanno ammazzato loro il gatto.
Si sono sfrenate a colpi di calci varicosi.
L’amicizia ci sta allontanando,
non vibra come una volta
le corde non suonano più,
lo specchio si è spento.

Ho rivisto il gatto in giro!
Quanta gente vorrà ancora ammazzarlo?!
Alice non ritornerà più indietro, non ce la farà,
il Gatto Nero di tutti le attraverserà il cuore.

Non spierà dai cancelli lo scultore
che intaglia un ciocco di legno.
Lei lo sa, sbaglia lo sento,
ha le budelle piene di segatura,
sotto al ponte accanto alla tomba
del Gatto del Cheshire.
    Ora lei ricomincia a telefonarmi, non so se resisterò.

La mia cornetta vomita
sotto al garage dell’infermeria
e nei vagoni dei cruciverba.
Dentro il loden, freme
con la croce dei turni, ansima...
le ho leccato il suo umore.
L’etere ci sazia nei baci,
la lingua ingoia aborti in ogni sala parto
lontano dalla carrozzina del bimbo perso.

Il suo gatto mi mostra il pelo nero,
riccio, ma non perdo il vizio.
Ormai la conoscono tutti.
Ha paura delle scritte sui muri,
di se stessa nella stanza del “Servizio di notte”.
Piange per i tuffi acrobatici del fratello.
Il treno impaziente fischia rauco,
aspetta fuori le coincidenze
sotto il pilone che lambisce il cimitero.
Il gatto ormai dorme e il ponte crollerà.
    Ora la catena mi stringe il collo... nella carrozzina.

Il libro è in fasce, è prigioniero
dell’ingranaggio psicologico.
    Ma tanto nessuno si accorgerà di nulla.