lunedì 6 aprile 2020

- Ordo ab Chao -

DAL KAOS AL COSMOS


“Se potessi tornare indietro nel tempo la sostanza di cui sono fatto ritornerebbe ad essere me stesso o cambierebbe forma, essenza?” 
Di sicuro se tornassi indietro nel tempo e nello spazio vorrei trovarmi di fronte a Raffaello e vederlo dipingere. Essere al di là e al di qua dell’affresco, dentro lo strato sottile dell’intonaco, nell’attimo esatto in cui sta stendendo le prime velature della “Scuola di Atene” proprio nella tavola che Telauge regge a Pitagora. Una minuta lavagna di numeri fluidi, armonici, sacri... Un pozzo nero che mi attrae e mi respinge: uno wormhole pieno di frequenze, vibrazioni, intervalli di tempo, scale musicali, ottave, quinte, rapporti armonici che trasformano il Kaos in Cosmos. Lì dentro è racchiuso il mistero dell’universo, l’anima del mondo: dal tetracordo nasce il numero, la musica, l’armonia, il suono che crea le cose. Lì, dove vorrei finire ed esserci, c’è la fine e l’inizio di ogni pensiero umano.  
Attraverso quel buco nero, mi piacerebbe trovarmi nell’immenso spazio rinascimentale, ridivenire me stesso nell’allora, nell’altrove ed essere lì nell’istante preciso dove all’unisono l’architettura la fa da padrona, la scultura avvolge, la poesia armonizza, la geometria forma, la pittura plasma, la musica compenetra, la dialettica espone, l’astronomia illumina, la filosofia espande, l’etica distingue: l’arte abbraccia! Sì, è così che mi immagino, a più dimensioni.
Oh che vertigine essere nello spazio sacro creato dal Gran Maestro di coloro che sanno e condividere lo spazio e il tempo con i più grandi pensatori del passato. Essere un paradosso fisico, l’unica creatura apparsa dal niente che saltella su quel regolare pavimento che dà dignità e forma al teorema di Pitagora, e restare lì dentro in eterno; l’unico essere legato alle quattro dimensioni, un essere permeato nell’ultimo quarto di croce cartesiana, un’essere inestinguibile presente ma non dipinto dall’VRBINATE. Ma se guardate bene io ci sono.

lunedì 20 agosto 2018

Tutta colpa di “Erre” - Gianni Rodari, 1972

C’è, chi dà la colpa
alle piene di primavera,
al peso di un grassone
che viaggiava in autocorriera:

io non mi meraviglio
che il ponte sia crollato,
perché l’avevano fatto
di cemento “amato”.

Invece doveva essere
“armato”, s’intende,
ma la erre c’è sempre
qualcuno che se la prende.

Il cemento senza erre
(oppure con l’erre moscia)
fa il pilone deboluccio
e l’arcata troppo floscia.

In conclusione, il ponte
è colato a picco,
e il ladro di “erre”
è diventato ricco:

passeggia per la città,
va al mare d’estate,
e in tasca gli tintinnano
le “erre” rubate.


sabato 19 maggio 2018

domenica 6 maggio 2018

Postfazione del libro “Racconti apodittici” - INGEGNI Edizioni


Del diletto del dialetto



  Se attaccassi con il dire che “Una lingua è un dialetto con un esercito ed una marina” direi na bella fregnaccia, ma se nello stesso tempo mi avventurassi a ribadire che il dialetto non assolda militanti direi un’altra castroneria. Vi basti sapere che, per come la vedo io, una singola unità gergale, o un singolo lemma paesano, è un lesto fante, l’insieme degli idiomi salentini una gran coorte, mentre, l’inconfondibile pugliese, un’intera legione insediata nei castra che accampa diritti sulla terra - una terra natia di genius loci -, una compagine pronta a difendere il proprio territorio: “terribilis est logos iste”, vale a dire la “parola”, «un pitale pieno di gioielli» e, la sua pronunciata e complessa smaterializzazione, il libro: la trascrizione e la morte del verbo, un diamante di carta.

  Se vi dicessi anche che il dialetto è per me chiricus vagans un territorio sacro senza confini, una cattedrale incompiuta, una dimora domestica affollata di famuli e familiari, un non-finito carico di materia da cavare in continuo, un morfema amorfo che ancora evolve e che nello stesso istante resta schiavo dentro un preciso significato che diventa significante nel momento in cui diviene altro da sé, una matassa, un garbuglio, un ricco incarto di millanta lemmi e dilemmi, una trama di riferimenti, un mosaico di sentimenti, di simbionti, di gente che si lega, si relaziona e vive gli stessi sapori, umori e rumor(i) degli stessi territori, non direi certo una genia-lata. Oppure sì, una genialata di suoni icastici ed ironici, un marasma che pressappoco vale l’intero patrimonio umano, il Logos, l’AUM che al suo interno nasconde il pleroma, le Metamorfosi che dal genoma aploide, muta nella forma polisemica apolide del me apulo che morfica in una apuleiana magia. La magia di una natura imperturbabile che lavora con lentezza, che cambia di continuo e si riposa, che si apre al nuovo e si placa, che cresce e si riplasma, che guarda al futuro e ritorna all’antico, che corre e si corregge, l’eterno simbolo della tranquillitate meridionale. 
   Un’atarassia, un mondo sapiente pregno di murge e ricchiteddi, di dolmen e mieru, di Ionio e gnimmarieddi, di Barocco e fichi cucchiati, di castelli e pettuli, di ulivi e pappamusci, di suppenne e pucce, di trulli e frise, di masserie e pizzica pizzica, di rapper e panzerotti ..., insomma una ricca armonia e solarità mediterranea, un inturcinamento territoriale tra moderno e tradizione in una mescidanza a me patria, che in una sola parola è “uno «gliummero»” un groviglio di concause caro non solo a don Ciccio Ingravallo. 

  Una aretè locale intrisa di una parlata molto pronunciata, di idiomi di creature e di cose, un poliedrico rebus che è molto complicato leggere e soprattutto scrivere, ma che è un puro diletto parecchio difficile da ridisegnare, o meglio, da res-pingere, perché è l’istantanea di un disegno divino, un flusso immaginario astruso, un parlottio da dormiveglia, una veglia, una polisemia che si contrappone al caos, alla cosa che, guarda caso, con un altro salto, è molto affine a un ibridismo o forestierismo inesauribile, quasi un cosmo ri-creativo, un fiume in pena, pieno di flussi saltellanti con un incedere misterioso e confluente in un incongruente zeugma, un Finnegamesenjoyce!
   Zuzzuviate gente, zuzzuviate.



In copertina e sul dorso: elaborazioni del disegno La Colombe bleue 
di Pablo Picasso (1961) e della litografia Grasshopper 
di Maurits Cornelis Escher (1935).
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Postfazione
inserita nel libro 
ZUZZUVIU - Racconti apodittici


Proprietà letteraria riservata
© Franco Chirico, 2018

Copyright © INGEGNI Edizioni
COLLANA  La Ninninedda 
Prima edizione: 2018

Quest’opera è protetta dalla legge sul diritto d’autore.
È vietata ogni riproduzione, anche parziale, non autorizzata.


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sabato 7 aprile 2018

Recollection Room




Gli ultimi istanti dell’esistenza non è possibile condividerli con nessuno, eppure sono lì, in eterno, tra le pieghe dell’universo, carichi di paure e di gioie. Risplendono nell’infinito oceano delle emozioni e dei ricordi, e ognuno di essi resta inabissato nel buio più profondo, nel silenzio del tempo. Solo quando sei sicuro di farli venire a galla, riemergono improvvisi come un’enorme balena bianca. Devi essere abile ad arpionarli al volo per riviverli, specialmente se non sono i tuoi. Non ha importanza su quale navicella stai viaggiando, in quali onde sei immerso, è importante riconoscere che ti appartengono, per sempre.

  Non stava più dondolandosi semplicemente sull’altalena. Era sospesa in aria e il beffardo rezzo gelido di metà novembre abbracciava il suo viso premendo sugli occhi come spilli. Sapeva che poteva cadere da un momento all’altro e che le sue minuscole dita, così attanagliate alle corde, iniziavano a sbriciolarle in tanti fili di canapa.
  Le mezzelune dei pollici, rosse quanto le adiacenti cuticole rosicchiate negli ultimi giorni, stavano scomparendo sotto la stretta presa delle mani. Ma più temeva di cadere e più si teneva salda. Percepiva l’aria che le scarmigliava i lunghi capelli ed era scossa da un fremito che gli gelava il sangue. Sentiva le vene che si contraevano per le fitte del panico che ripetutamente accelerava sui polsi mentre il cuore, dopo ogni nuova spinta, gli arrivava in gola.
  Per un attimo ha riaperto gli occhi alzandoli in alto, si è assicurata che i nodi delle corde erano ancora stretti attorno al ramo e si è sentita legata più al cielo che alla terra. Così sospesa nel vuoto non ha però capito se sognava, se erano solo ricordi o se quella caligine che affogava negli occhi era vera e stava divorando i suoi pensieri o se era un nuovo incubo più feroce del precedente.
  Non poteva permettersi una nuova ricaduta, il dottore era stato chiaro “devi tenerti salda ed essere nel qui ed ora, sempre”. L’angoscia è cresciuta appena ha realizzato che le corde, invece, si perdevano nel nulla e lei dondolava appesa solo alle sue paure. Il terrore ha scomposto il suo ritmo appena si è accorta che quel movimento continuo non gli restituiva più l’orizzonte. Allora ha guardato in basso e da quel momento ha iniziato a vedere solo croci bianche spuntare improvvise dalla terra, fino a divenire una triste distesa di tombe di un cimitero infinito. 
  Lentamente davanti ai suoi occhi si è aperta una voragine che ha iniziato ad inghiottire le lapidi. L’albero che prima aveva vicino era svanito, il cielo volatilizzato e sotto ai piedi si allungava ferina l’ombra di chi la stava spingendo per portarla via con sé.
  La vertigine degli eventi gli ha rattrappito gli arti. Ha sbarrato la bocca serrando i denti e ha inghiottito la lingua per non doversi lamentare. Per ultime ha socchiuso le cosce opime per non subire una violenza che immaginava arrivare fin dentro di lei, nell’intimità dei piccoli anni. Poi improvvisa una luce intensa, antica, è piombata fulminea, ha illuminato le soavi membra che ai suoi occhi sono apparse per quello che erano realmente, bitorzolute e rattrappite, quella di una vecchia. I capelli incanutiti in fretta sono diventati rampicanti e si sono avviluppati in lunghissimi trefoli intrecciati come funi, le stesse che prima stringeva tra le mani nodose. Così appesa e tirata su per i capelli ha iniziato a piangere per il dolore. Nulla poteva contro quella forza oscura che la tirava, portandola al di là delle sue ultime energie, verso il definitivo territorio dell’annullamento. Attimi di angosce.
  Tra le nuvole si è sentita assorbita in un intenso lucore. Intorno ha riconosciuto il vorticare di esseri di energia, creature smaniose di accompagnarla fino in fondo, verso il principio di nuova perenne evoluzione. E proprio nell’istante dell’estremo trapasso, lento, un improvviso singulto l’ha tirata fuori. Una forza opposta l’ha fatta rientrare in sé.
Di colpo si è ritrovata aggrappata alle robuste corde di un’altalena che pencola sotto un antico ramo, quello della secolare quercia della casa paterna. I ricordi l’hanno riportata indietro. Riconosce le finestre, le tendine socchiuse, i fiocchi, l’avvolgente calore domestico, le carezze dei propri familiari. Ora ama quel luogo che profuma di tenera vita, ricorda che lei figlia, ha dei figli, cinque nipotini, e che quelli sono i conclusivi pensieri che ha sentito per l’ultima volta. Rivede gli istanti in cui il marito l’ha abbracciata e fatta sua delicatamente, rammenta i primi vagiti di Trinest, la sua secondogenita, le prime parole pronunciate e la susseguente laurea. E nello stesso istante, improvviso, incombe il dolore, la morte del coniuge. La figlia da crescere da sola, i lustri che passano inesorabili fino al matrimonio con il secondo compagno, e gli altri due figli. E poi ancora la nuova disgrazia e il dolore immenso per la perdita dell’ultimo nato, per un malore fulminante, finché un nuovo lungo dondolio la riporta lontana, in un luogo senza più tombe. Senza più rimandi.
  Sospesa nel vuoto assapora l’aspra umidità della notte, calma ulteriori ricordi che riaffiorano come antiche ferite che finiscono per stroncarla. Ora la compieta è davvero suonata. Sente la pelle lacerarsi sparpagliandosi in ogni piccolo spazio intorno a sé. Sente i suoi respiri affannarsi nel cercare di tessere quei brandelli dispersi e farne un nuovo corpo di fresche e rigeneranti intenzioni. E mentre approda verso la fine, un secondo scossone la riporta via da lì verso l’infinito peregrinare tra le langhe oscure dell’immensa solitudine e dell’oblio.
  L’ombra distruttiva l’avvolge in una luttuosa veste nera. Una cornacchia gli si posa sul braccio destro e inizia a beccarla a sangue lacerandone i tessuti, sull’altro s’adagia una candida tortora che la solleva delicatamente per portarla via con sé.
Così trafitta e in croce non osa chiamare a sé l’oscura signora e pregarla di accelerare quei pochi attimi indulgenti che significano morte. Sa che aspettarla le dà un coraggio che pone sollievo e beatitudine agli ultimi istanti terreni della sua antica anima intrisa di infiniti risvegli interiori. Rivede il cimitero sotto di sé e di questo labirinto afferra il senso e il messaggio evocativo. Le eterne onde del destino volgono al termine e niente e nessuno cullerà più i suoi sogni e ricordi. 
  Il suo essere alle ventitré, ormai, non esprime più un dondolio, è stasi, rigidità, pace, nullità. “Erigone è stata strangolata”. Un canto la ricompone.


«Luce luce lontana, più bassa delle stelle,
quale sarà la mano che ti accende e ti spegne?
Ho visto Nina volare tra le corde dell’altalena, un
giorno la prenderò come fa il vento alla schiena».


  Le corde si fermano improvvise e quando la luce si accende, le sue immortali immagini non ci sono più. Solo le sue emozioni sono lì, intatte nel tempo, per essere rivissute solo dai propri figli e nipoti.
  Un triste clic spegne quest’intima testimonianza di vita registrata sul pianeta Terra in loro possesso. Sul megaschermo bi-oled LogDiØ3, il potente cronovisore di ultima generazione, compare una data che sa di inverosimile: 29 febbraio 2076. La donna che esce in lacrime dalla Recollection Room della stazione spaziale orbitante “Nantucket” non può che essere grata al capitano Faber Mobachaby per averle fatto rivivere l’esperienza degli ultimi istanti di sua nonna Nedeva, una leaplings di 82 anni esatti, proprio oggi.

In copertina e sul dorso: elaborazioni del disegno La Colombe bleue 
di Pablo Picasso (1961) e della litografia Grasshopper 
di Maurits Cornelis Escher (1935).
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Racconto inserito nel mio prossimo libro 
ZUZZUVIU - Racconti apodittici

Proprietà letteraria riservata
© Franco Chirico, 2018

Copyright © INGEGNI Edizioni
COLLANA  La Ninninedda 
Prima edizione: 2018

Quest’opera è protetta dalla legge sul diritto d’autore.
È vietata ogni riproduzione, anche parziale, non autorizzata.


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Fabrizio de Andrè - Ho visto Nina volare